Architettura Cimbra

La casa ‘Haus’ Cimbra del Cansiglio

La casa dei Cimbri del Cansiglio rappresenta un tipo edilizio in uso negli Altipiani di Asiago e ad occidente della Baviera, con qualche esemplare nella Svizzera orientale e nell’Anaunia in Val di Non, comunque nettamente distinto da quello vetusto ancora presente in Alpago “Vallis Lapacinensis”, e cioè da quello gotico Longobardo-teutonico caratterizzato dagli spaziosi archi del piano terra di facciata e dalle finestre arcuate del solaio; da quello veneziano con bifore (Valdenogher); da quello veneziano-bizantino con monofara (Farra), e da quello sassone-fiammingo con tetto “a lastrolare” e a gradoni (Borsoi).

Quella dei primi insediamenti a pieno bosco del rozzo tipo edilizio di Pian dei Lovi e di Val Bona, di cui rimangono solo le vestigia, più che di casa nel verso senso della parola, si trattava piuttosto di una dimora del tipo dei casoni, o «villereccia».
La base rettangolare era un muretto a secco alto circa 20 cm., sul quale si alzavano le pareti fatte di tronchi “bèrch” o di travi “trem” sormontati in orizzontale ed incastrati agli angoli, fino ad un’altezza tale da consentire un unico piano, con la facciata portante i laterali obliqui dei due spioventi, che guardava la valle e i declivi opposti.
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Originale risultava il tetto “dach” a due sole falde non molto spioventi: al bordonaIe di colmo “wirstholz” riposto in orizzontale sui vertici delle pareti e dell’assito intermedio erano inchiodate a legno le code degli asseri “bìarst” traversali della specie dei pali, mentre le teste posavano invece sulle pareti dei due fianchi della casa, con una leggera sporgenza dalle stesse. Sugli asseri, orizzontalmente e alla distanza di circa lO cm. l’uno dall’altro erano poi riposti dei bastoni misti a bacchette “ruten”, legati agli asseri stessi con cerchietti di contorte “sache-“bid” di faggio, vinco, o nocciolo, in sembianze di anello “renkh”, così da formare una specie di assito steccato obliquo. Cominciando poi dal colmo, “wirst” era completata una prima fila di “s-ciolpe” o “stele” (trucioli o scarti della liscia tura dei crivelli) poste a manate sopra le bacchette, ed essendo dette “stele” mal sagomate in origine, prima dell’uso erano messe a “masera”; venivano cioè ammucchiate e gravate da pesi, perché acquistassero la linea appropriata.
Alla prima fila ne seguivano tante altre fino al raggiungimento della trave di grondaia “gorna” inchiodata sulle estremità o teste degli asseri, così da evidenziare un livello unico con le file delle “stele”. E, ovviamente, per consentire il regolare deflusso dell’acqua piovana, le manate delle file successive erano riposte con l’estremità superiore sotto la parte bassa della fila già completata.
L’abbondante strato di “stele” era poi assicurato da stanghe traversali e, col trascorrere del tempo, lo strano cumolo si trasformava in una specie di agglomerato sul quale crescevano fiori, erba ed arbusti. Aveva due vani separati dall’assito: cucina “khoch” e stanza. La cucina aveva il pavimento allivello dello zoccolo, per cui si otteneva un vuoto sottostante nel quale trovavano rifugio il cane “hunt” e il gatto “khàttaro”.
L’uscio collocato nella direzione della linea d’intersecazione dei due spioventi del tetto, era anche la porta “tuar” della casa; era diviso orizzontalmente in due parti di cui quella superiore “vantiera” veniva aperta soltanto, per agevolare l’uscita del fumo, quando la casa ne era satura: e il caso doveva essere frequente, perché specialmente col cambiamento del tempo, all’interno era tutto un riecheggio del comando “apri la vantiera!” “Tiiunan offen de Vantiera!”
Al centro c’era un focolare “fogher” -“hèart” rialzato e contornato da panche, sul quale pendeva una nera catena “héela”, cui era appeso il paiolo “Khessel” della polenta o la pignatta “habo” della ministra “manèstar”. Sulle mensole cantonali erano riposti i barattolini del sale e delle spezie, i cartocci del caffè e dello zucchero, chincaglierie, e il “bucio” del filo e della lana con relativi utensili.
Un tavolino “tischl” cantonale a ribalta, sorretto da un ferro quando veniva calato in posizione, serviva per sedersi a mensa.
Mancavano completamente le sedie e vi si poteva invece adocchiare certe panche con superficie pressochè consumata, la quale evidenziava noiosi groppi sporgenti.
Poggiato ad una parete c’era il “bigòl” con accanto due secchi di rame (sing.”katzarèll”), due secchie di legno piene d’acqua e il “brent” della farina. Non c’era la gola del camino “khemmine” khémming” per l’uscita del fumo” r6ch”, funzione che era invece attribuita ad una botola praticata nella falda di uno spiovente, e che era lasciata aperta di giorno da uno sportello a ribalta azionato da una corda “smìar” o da un bastone, e che poi si chiudeva alla sera, perché il poco fumo rimasto si rammucchiasse sotto il tetto, così da formare una specie di strato impermeabile che proteggesse dal freddo esterno e trattenesse invece il poco calore rimasto all’interno.
In proposito un tipico sistema di camino adatto allo sfruttamento del fumo per mantenere tiepido l’ambiente casa e anche per agevolare lo scioglimento della neve che, in certi inverni, abbondava premendo minacciosa sul tetto, era adottato nelle case dei Laser e dei Martello, nella località di Baldassare-Prandarolla.
Sopra il focolare, una cappa in funzione di imbuto alla rovescia, convergeva il fumo e le faville in una gola che entrava nel sottetto separato dalla sottostante cucina da un tavolato.
Qui la gola finiva in una grossa cassa posta in funzione di camera da fumo, con le pareti fatte di bacchette accuratamente spalmate di strame intriso di fanghiglia a protezione dall’incendio, nella quale il fumo veniva imprigionato per deporvi caligine e faville. Il fumo ne usciva poi per una piccola apertura per invadere tutta la soffitta “Dilla”; e da questa, per emissione indiretta, trovava lento sfogo negli spiragli “khloplen” delle scandole e delle pareti. Dietro la cucina, con pavimento a tavoloni fissati con (broche Iignee) a dei pali riposti sulla terra, e quindi su un piano terra più basso di quello della cucina, c’era la stanza cui si accedeva da un uscio di cucina, ricavato nell’assito e scendendo poi uno o due scalini, sui quali alla sera, dopo cena, si inginocchiava l’avola per recitare il S. Rosario con la famiglia coricata.
Era un angusto vano che serviva sia da ripostiglio, come da dormitorio; c’erano infatti i giacigli “bait” fatti di frasche o tavolati sostenuti da pali e completati dal pagliericcio “pàjon”; e forse per atavica indole bellicosa il capofamiglia vi giaceva, usando lo schioppo “sbuch” come cuscino “pòstar”. Su di una panca “pankh” era riposta la biancheria e su di. uno scanno “stuul” a tre gambe posavano le coperte “dékhen”.
Alle pareti erano fissati dei beccatelli a pieno legno, con appigli naturali, ai quali era appeso il vestiario, e davanti al giaciglio del capofamiglia, aderente alla parete, c’era un cassone “kasten” a tre scomparti, di cui uno era riservato alla roba da mangiare, uno alle stoviglie e uno agli utensili, ai carteggi e al denaro: d’inverno, poi, in un angolo prendeva posto pure il grosso mastello dei crauti.
Alle volte nel sottetto c’era pure un piccolo solaio “stadel” che serviva da dormitorio e al quale si accedeva per una scala.
Le finestre “béestar” poste sotto il bordo dello spiovente spesso prive di vetri e chiuse da sportelli laterali o a ribalta, erano alquanto minute per evitare improvvise visite dei lupi “Iolf’, i quali nelle gelide notti invernali del Cansiglio giravano sovente intorno alla casa, graffiando la porta, spaventando con pungenti guaiti. Tutti i casoni erano privi di cesso e di cisterna per la fornitura dell’acqua che costituiva sempre un grosso problema: quella per bere e per cuocere il cibo era attinta alla fontana della malga di S. Anna, e se ne portavano a casa mastelli pieni con la slitta o col carretto; oppure le donne si recavano alle sorgenti di Pian dei Lovi o di Palughetto col “bigòl” (un listello ricurvo con due appigli alle estremità) posato sulla spalla e ne portavano a casa due secchie piene.
Per le pulizie e il bucato, si faceva invece uso dell’acqua di una pozza “laaba”, alla quale l’acqua piovana affluiva per due solchi, e che i Cimbri scavavano a qualche centinaio di metri dall’insediamento, perché non diventasse un pericolo per i bambini. L’aspetto dei casoni scompare nei successivi insediamenti delle radure (PichVallorch) o vicini alla strada (Campon-Canaie), dove appunto il casone è sostituito dalla casa cimbra propriamente detta; cioè quella del tipo edilizio allemanno, a forma rettangolare e con la facciata e la porta sul fianco che guarda la strada o la valle. Presentano un solo piano rialzato da uno zoccolo e le pareti sono di legno, ma il posto dei tronchi è preso da larghi tavoloni realizzati sul posto e inchiodati internamente ed esternamente alle travi portanti, così da formare un vuoto intermedio “panò”, una specie di camera d’aria utilissima per riparare l’interno della casa dal freddo.
La macchina d’uopo era formata da un “cavalet” e da una caratteristica sega detta “spartidora”.
Era questa un rettangolo i cui lati lunghi m.-1,50 per cm. 90, risultavano formati da quattro assicelle incastrate in testa, e fra i due lati minori presentava una sega larga circa sei cm. inserita in verticale.
All’esterno di una delle assicelle minori e alla distanza di circa 40 cm. sporgevano due maniglie e dall’altra due punte convergenti, alla cui estremità era incastrata un’assicella lunga circa 40 cm, la quale offriva la presa alle due mani del segatore che posava sopra la taja.
Il “cavalet” era invece una specie di tripode sistemato davanti alla catasta delle taje, formato da due puntelli lunghi circa m. 1,70, con la coda poggiata su due travetti distesi al suolo e la parte superiore incastrata nella testa di una grossa trave regolarmente squadrata, disposta in obliquo e con la coda terminante sul suolo. La taja da segare veniva allungata dalla catasta, per farla posare a metà sopra il vertice del “cavalet” ed era poi legata alla trave obliqua con una solida catena.
All’angolo formato dall’incontro della taja con la trave portante, a colpi di mazza “mathuia” o con la testa della scure, era quindi inserito un grosso cuneo in modo che la taja si mantenesse in posizione orizzontale e nello stesso tempo, la catena si tirasse, cosÌ da impedire che la taja rovinasse al suolo col segatore.
Conclusa la parte preparatoria, due robusti sega tori “sega t” appostati l’uno sotto la taja e l’altro sopra la medesima, cominciavano a far funzionare ritmicamente la sega a furor di braccia, nel senso di su e giù; e quando il taglio aveva raggiunto il “cavalet”, la taja veniva girata per poter completarlo, ottenendo cosÌ il tavolone.
La casa dei Bonatto di Pich presenta tre vani: cucina, camera e stanza che serve da dormitorio e ripostiglio; nel sottetto c’è anche il solaio o “teza” schtir” che serve da dormitorio.
La porta è all’estrema destra della facciata; essa dà alla cucina e vi si accede superando due scalini “skaltin”.
Dalla cucina per una porticina “tuurle” ricavata alla sinistra, nel punto in cui l’assito è a contatto con la parete di facciata, si entra in un andito con finestre di facciata e due usci interni che danno alla stanza con funzione di tinello e ripostiglio e alla camera “kammar” khàmara”.
La struttura del tetto è diversa da quella dei soliti casoni: al posto delle “stele” ci sono le scandole “schindlen” “eser”. Sui pali traversali ben squadrati dei due spioventi sono inchiodati a legno e in orizzontale, dei listelli alla distanza di circa 60 cm. l’uno dall’altro, sui quali poggiano appunto le scandole prodotte sul posto in un modo molto semplice: sulla zocca viene sistemato un tondello di abete in verticale e della lunghezza di 80 cm. Quindi con un apposito coltello di ferro si pratica una lieve screpolatura nel cerchio di testata, nella quale è poi introdotto un coltello ligneo a due manopole; e battendolo quindi con la mazzetta “kaula” e manipolandolo a seconda delle possibilità, se lo fa affondare fino allo stacco dellistello, cioè della scandola.
Una soluzione strutturale diversa ha invece la casa di Costante Gandin di Canaie, la quale si alza ad un unico piano da uno zoccolo che si eleva di un palmo dal suolo “èerda”. E’ tutta di legno con una lunghezza di m. 12 per 5 circa, e la porta è ricavata alla facciata Est, che guarda la strada, mentre i fianchi si protendono a Sud su uno spazioso cortile “hòff’ confinante con l’orto “gaarto”, dove c’è abbondanza di patate “pataaten” e di cavoli “kaptitzen”.
I quattro vani sono tutti disposti in orizzontale, ma nel sottetto c’è la “teza” adibita a dormitorio per Sirio, lole e Francesco Giuseppe Costantino, figli di Amedeo, mentre nella parte estrema di Ovest, sotto lo stesso tetto della casa e separata dall’ultimo vano da un assito, c’è anche la stalla “stall” “Ktistal” con ingresso dal cortile, dove si può notare un bel cavallo bianco di nome Ciccio e una cavallina dal pelo color marrone chiamata Pina; e daìla metà in sù, sorretto da fitti pali, c’è il fienile “Hobesoldar”.
A circa tre metri dalla porta della stalla, nel bel mezzo del cortile, c’è una specie di pozzetto rotondo alto poco più di un metro e con la base a livello del cortile, nel quale è inserita la caldaia in funzione di lisciviatrice; ha pure una porticina per l’introduzione della legna di faggio, per alimentare il fuoco che deve riscaldare l’acqua, e al fianco, su di un tripiede, c’è il grande mastello del bucato. Dopo aver ben lavato con sapone le lenzuola e la biancheria, nonna Luigia con l’aiuto della nuora Geltrude le accomoda per benino nel mastello e le copre con una stoffa bianca “colador” in funzione di colino, in quanto deve lasciar scolare la liscivia liquida e trattenere la cenere. Fa quindi bollire l’acqua della caldaia “cajera” e alla bollitura vi rovescia tre secchie di cenere. Quando la lisci via “liscivath” è pronta, la rovescia a secchie sopra il “colador” attraverso il quale filtra pulita, per bagnare la roba sottostante in ogni dove, così da consentire l’ottima azione di pulitura che si protrae per tutta la notte. Al mattino la biancheria viene tolta dal mastello e risciacquata per bene; e risulta profumata e brillante.
Il primo vano ad Est corrisponde alla cucina che ha un pavimento di tavoloni di faggio inchiodati a chiodi “broche” di legno sui travicelli posti sugli zoccoli e vi si accede salendo uno scalino.
Al visitatore dà subito nell’occhio il caratteristico focolare rialzato posto nel mezzo del pavimento; ha la superficie ben lastricata con un lato libero, mentre attorno agli altri tre c’è una intelaiatura di panche fisse che si elevano di circa 30 cm. dal piano del focolare. Sono panche ben sagoma te a quattro gambe, alle quali nella parte superiore, con partenza dal lato del piano a sedere, sono inchiodate a legno quattro tavole “lidern” ornamentali. Sopra il focolare, è posta in evidenza la gola lignea pericolante del camino, la quale comincia dal basso con una ampia apertura “nappa” sorretta da quattro colonnine lignee e poi prosegue, restringendosi fino al tetto coperto a scandole, dal quale esce elevandosi in funzione, appunto, di camino.
Lungo tutta la lunghezza della parete Nord e fino a tre quarti di quella a Sud, è adattata una panca fissa, che ha davanti un tavolo lungo circa tre metri, il quale ha accanto due panche libere; c’è pure un tavolino con due sedie. Dalla cucina per un uscio ricavato a Ovest sulla sinistra dell’assito, si passa al tinello “stuba” che presenta al centro un grande tavolo contornato da scanni; appesi ai cavicchi sporgenti dall’assito e bene allineati, spiccano diversi secchi di rame lucidissimi; sulle mensole sono riposti gli utensili, le stoviglie e i bicchieri che servono anche all’osteria; accanto alle pareti laterali si notano le secchie lignee “sedei” piene d’acqua, il “brent” “bucio” (cilindro !igneo con fondo, coperchio e superficie laterale fatta di assicelle “plitellen” “boseghe” strette da due o tre cerchi “therkoi” -ròafen”) della farina e l’arconcello “bigòl”.
Proseguendo sempre in orizzontale e a Ovest” per un uscio si entra nella camera di nonno Costante e nonna Luigia: c’è un grande letto che, a colpo d’occhio, si direbbe fatto da un esperto falegname; ha la testata aderente alla parete, le sponde molto alte e il pajon sorretto da asserelle traversali.
Di fronte al letto, aderente alla parete c’è il cassone “truge” in uso nei vecchi casoni, ma molto più ordinato: lo scomparto “kIosten” di destra ha una cassettina “kIosterlen” dove sono posti i carteggi, gli oggetti di gioielleria, i libri e il denaro; quello centrale è riservato alla biancheria e quello di sinistra al vestiario. Alle pareti vi sono molte immagini sacre. Sempre a Ovest, al di là dell’assito c’è poi la camera del figlio Amedeo e della nuora Geltrude Bona Pistor, ma la porta è sul fianco sud, per cui vi si accede dal cortile, superando uno scalino. Poi, come già detto, c’è la stalla. Poco discosto dalla casa di abitazione, Costante ha una seconda casa lunga Il metri, la quale comprende l’osteria (m. 6 per 5) e la stanza (m. 5 per 5), dove dormono le altre sei figlie di Amedeo: Aurelia, Gesilda, Aria, Elide, Alba e Arpalice.
Il tetto è a scandole e le pareti sono di tavoloni. Il pavimento è a fior di strada lungo la quale si distende un fianco della casa, e poggia su un muro seminterrato che racchiude la grande cantina, dove sono le botti del vino, i mastelli dei crauti, le forme di formaggio e tutta la roba da mangiare. All’osteria si accede dalla facciata Nord che si eleva su terreno leggermente in pendio, salendo tre scalini; all’interno, nel fondo, c’è il tavolo sul quale sono i bicchieri e le varie misure del vino: il quarto, il mezzo litro, il litro e il doppio litro, tutti di terracotta.
Al centro c’è un grande tavolo contorniato da panche, qua e là ci sono diversi tavolini con sedie. Adiacente all’assito c’è una stufa a castello tutta di mattoni, che spicca sopra un rialzo a muro e riscalda a sufficienza tutto il locale; ha una porticina di ferro per l’alimentazione del fuoco ed è sormontata da una piastra “plata” di ferro con tre fori per le pentole e i tegami. Alla parete Est ci sono le panche fisse.Sul fianco Ovest si apre un uscio che dà alla loggia larga tre metri, la quale si protende lungo tutta la lunghezza della casa, mentre all’estremità nord dell’assito c’è la porticina che immette nella stanza dormitorio priva di sedie, di panche e di scanni, per cui le sorelle appendono il vestiario a qualche cavicchio sporgente dall’assito e dalle pareti. Un po’ più sotto, appoggiata al fusto di un annoso abete, e con tetto coperto di “stele” e portato da quattro tronchi verticali c’è la tettoia, dove sono riposti il carretto e alcuni attrezzi; e più in là ancora c’è il pollaio “hérmastall” che abbonda di tacchini e di galline “hénnen”.
L’ultimo modello edilizio è rappresentato dalla casa coperta a scandole del tipo cimbro-allemannico degli Azzalini di Vallorch: le pareti di tavoloni si elevano su di uno zoccolo alto circa 60 cm. formando un unico piano che, allivello del pavimento, sulla facciata che guarda la strada e il Sud ha anche la loggia di tutta facciata e riparata dalla pioggia dal prolungamento dello spiovente. La porta è al centro della facciata e dà alla cucina, alla quale si accede per una scala a tre scalini, che taglia la loggia a metà. In cucina scompare il focolare e si nota invece una stufa in ferro aderente alla parete; ci sono: un tavolo, delle sedie e una credenza.
All’assito di destra c’è la porti cina che dà al tinello che serve anche da ripostiglio e a quello di sinistra un uscio che dà alla camera ammobigliata. Nel sottetto c’è il solaio che funziona da dormitorio, al quale si accede da una scala esterna a scalini lignei, fissata alla parte laterale Ovest. I dati raccolti e riportati in questo capitolo non devono tuttavia ritenersi definitivi circa l’esatta origine dei tipi edilizi in argomento, ma una porta aperta verso ulteriori approfondimenti.

La huta

Ottenuta la concessione dei faggi, nel lotto da tagliare il capo famiglia costruiva la huta, cioè la capanna laboratorio dell’artigianato cimbro.Era formata da un unico spiovente che nella parte frontale, poggiava su un bordonale di faggio incastrato nella forcella superiore di due pali dell’altezza di circa tre metri, piantati solidamente nel terreno alla distanza di quattro metri l’uno dall’altro. La parte terminale toccava invece il terreno, lo spiovente risultava un assito steccato simile a quello delle falde del casone, portante il rudimentale strato di “stele” assicurate da pesi e da pali. Purtroppo si prestava frequentemente al gioco della capra che si divertiva ad arrampicarsi per fare i suoi ‘ salterelli e gettare in aria le “stele” a cornate; e per l’artigiano non faceva certo novità notare ogni tanto le zampe dell’animale pendere all’interno del laboratorio, dal sottotetto.
huta
Appena dentro, nel lato sinistro era sistemata una tavola di pali sulla quale erano riposti i “trabakai”, la “haka”, i “fer da therkoi” e le “slire”. A destra, su un tavolane traversale inchiodato a due pali della frontale di accesso, era adattata la stiga col “sait”, un fer da therkoi e lo strappazzon. Veniva quindi il Zoch da s-ciapar che aveva accanto la zocca per la squadratura e la spaccatura dei tondelli di faggio. Nella parte centrale era sistemato il fuoco, sul quale da un ramo del tetto pendeva la catena di ferro, portante il paiolo usato per fare la polenta. Nelle vicinanze del fuoco, ad un’altezza di circa 80 cm. passavano due tondelli traversali di faggi inchiodati con chiodi di legno a due pali delle pareti opposte; e sui medesimi erano riposti i crivelli perché si riscaldassero, così da rendere più facile la ritorsione nel piegador. Nella laterale destra si notava uno strato di “stele” sempre nuove e chiare sul quale si versava la polenta fumante dopo la cottura.
La parte più interna era invece riservata ad accogliere il prodotto del giorno, che poi era tolto alla conclusione della giornata lavorativa. Sull’aia saldamente adattato ad una panca riposta nel lato destro, troneggiava il piegador, mentre a sinistra era la zocca sormontata da una “thoncola” squadrata in attesa di essere sottoposta all’azione del pianon che le stava accanto.