Insediamenti

I Masteleri

Nel 1850 giunse da Roana in Val Bona un cimbro di professione “masteler”, Bonatto Giovanni detto Pogna lo Zoppo, probabilmente chiamatovi dai cimbri del Cansiglio che lo avrebbero çonòsciuto durante i frequenti viaggi che essi facevano per vendere la loro merce al mercato di Asiago. Coll’infausto evento della prima guerra mondiale, egli ritornò a Roana con la moglie, i due figli maschi Antonio e Giordano, le quattro figlie e il nipote Mario figlio di Giordano.
Dopo la guerra ritornò Mario con la famiglia e il fratello, ma solo come stagionale, alternandosi poi con quest’ultimo fino al 1933. Nel 1934 ci ritornò da solo e fu la sua ultima volta; poi si impiegò all’ufficio protocollo del suo comune.
Ormai l’azienda forestale diventava sempre più restia a concedere il legname a masteleri e scatoleri per un diritto che essi vantavano, ma che non potevano forse più documentare, e anche perché vedeva una grande percentuale (secondo i calcoli di Walter Conzani circa il 60% degli alberi migliori finire come scarto). Così l’artigianato andò lentamente spegnendosi, senza prospettive di ripresa.

S-ciapar

S-ciapar è il nome dell’artigianato cimbro e viene attribuito in modo specifico all’operazione della liscia tura delle assi destinate alla trasformazione in therkoi; e l’attrezzo di spicco è la stiga.
Era questa una specie di scala con i due montanti uniti nella parte inferiore e quella superiore munita di due pioli rettangolari lunghi cm. 30 e cm. 35, fra i quali veniva fissato il «sàit» (un asse trapezoidale lungo m. 1,5, con lo spessore di cm. 3 e le due basi, di cui una smussata, rispettivamente di cm. 10 e cm. 3). L’albero veniva diviso in «zoncole» tronchi di varia lunghezza: cm. 70 per le «beterle», m. 1,20 per le scatole da formaggio, cm. 90 per le tamisete, cm. 140 per i tamisi, cm. 160 per i crivelli, m. 4 per i crivelloni, ecc.
Quindi le «zoncole» ben sistemate su di una comune zocca venivano divise in due medene che, a sua volta, erano divise in due «aster» oppure in «quart», cioè quattro parti uguali se risultavano ancora troppo ampie. Iniziava quindi l’operazione della squadratura per ottenere dagli «aster» e «quart» altrettanti travicelli regolari che le donne e i ragazzi trasportavano nella baracca al cui centro era sistemato il «zoc da s-ciapar», il banco da lavoro formato da due «cavalet» che portavano un grosso tronco con tre incavi centrali di cm. 15 -8 e 4 e due laterali nei quali erano riposti i «trabakai» cunei e gli «slire», pietre rettangolari raccolte a Cornei o Borsoi, di cui quella più larga serviva ad affilare la «haka» (una scure sul cui manico lungo cm. 80 erano segnate le misure dei crivelli), e l’altra per affilare i «fer da zerkoi», coltelli a doppio manico «zobranal».
Nel primo incavo veniva riposto un «aster» o un «quart», cosÌ da consentire al cimbro, generalmente il capo -famiglia o il primogenito, di sistemare fra le gambe, cioè nella posizione di cavalcioni il travicello in quanto, in questo modo, le gambe stesse spostandolo a destra o a sinistra consentivano la spaccatura regolare.
Sulla mezzaria dell’«aster» si tracciava quindi il «pozenal», una linea sulla quale battendo con la mazza l’occhio della «haka» si praticavano tre «pohaine», segni di apertura: uno centrale nel quale si inseriva un «tra bacaI» piccolo e due di testa nei quali erano inseriti due «trabakai» più grandi. Con l’occhio della «haka» o con una mazzetta fatta a clava «kaula» si batteva prima su quello piccolo per iniziare l’apertura e poi sui due più grandi per completarla, ottenendo quattro «vire».
Lo stesso procedimento si continuava poi per il «vire» riposto nell’incavo centrale per ottenere due «sboner». E ogni «sboner» sistemato nell’ultimo incavo era infine diviso in due crivelli, cosicché normalmente ogni «aster» poteva dare 16 crivelli. E si arrivava così al turno della lisciatura.
Dopo aver indossato lo «strappazzon», una specie di pettorale dello spessore di circa un centimetro fatto di toppe di coperte fuori uso, «balade» giacche vecchie ed altro per ripararsi dal taglio dei coltelli «fer da zerkoi», lo «zimbarlo» si avvicinava alla «stiga» e, premendo col basso ventre il «sait» sul quale era posato un crivello, cominciava a lisciare i crivelli dall’alto verso il basso: e accanto a lui i ragazzi attendevano l’assicella per stenderla poi al sole, obliquamente adagiata ad una stanga sistemata fra due alberi. A questo punto iniziava l’operazione «zerkoi». Se, alla sera, il tramonto era rosso, il capo -famiglia diceva: «Morga bisogna far “zerkoi”»; il giorno dopo, se il cielo era sereno, confermava: «Hauta bisogna far “zerkoi”»; questo lavoro lo si faceva infatti solamente all’aperto, per cui richiedeva belle giornate.
Raggiunta la baracca un ragazzo appoggiava sei crivelli ad una stanga sistemata accanto al fuoco perché si scaldassero ed iniziava subito la grande fatica che impegnava tutta la famiglia, specialmente per la richiesta di cambi alla manovella del «piegador», un attrezzo infisso in un tavolone e formato da una manovella e un rullo dentato.
Uno infilava quindi l’assicella calda nel piegador, un altro girava la manovella per una ventina di minuti, lasciando poi il posto ad altri per riposarsi; un terzo, seduto su di uno sgabello, afferrava l’assicella che usciva cerchiata e la sistemava in «maz» mazzetti «bine» da 15 o 16; e questo lavoro, se il tempo era bello, proseguiva per una decina di giorni. Se poi, durante l’operazione «zerkoi» v’era eccedenza di personale, allora il capo -famiglia si appostava in un angolo della baracca per confezionare i «brent», madie alte cm. 45 con cm. 35 di diametro ottenute con tre «zerkoi» larghi cm. 15 sovrapposti l’uno sull’altro e stretti, nella giuntura, da due «sotane»